The Office (U.S.), 10 anni dopo
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Una volta ogni qualche anno, in estate soprattutto, decido di guardare una vecchia serie tv tutta d’un fiato. Uno di quei show che hanno fatto la storia della TV, ma che non ho avuto modo di vedere quanto andavano in onda, per un motivo o per un altro. Ho iniziato questa tradizione con How I Met Your Mother quando stava finendo, passando poi a Breaking Bad qualche mese dopo la fine della serie.
Quest’anno ho deciso di guardare The Office (U.S.), la popolare serie tv che ha creato così tanti meme, usati soprattutto nel mondo crypto e su Twitter, che non potevo non guardarla. È diventato un fenomeno culturale.
Ho iniziato a guardarla seriamente a fine luglio e oggi, 25 agosto, ho guardato l’ultima puntata. Ho guardato tutti i 195 episodi, che durano complessivamente oltre 75 ore, in poco più di un mese. Ho guardato mediamente 5-6 episodi al giorno, con alcune interruzioni. Sono stato prevalentemente in viaggio e in vacanza, quindi questo ha aiutato. Ma se all’inizio volevo vedere The Office solo per i meme, finita la prima stagione ho iniziato a guardarla un po’ come parte del mio percorso di crescita come manager.
Per chi non sapesse la storia di The Office (U.S.) (che d’ora in poi chiamerò semplicemente The Office), la serie racconta le dinamiche che avvengono in un ufficio della filiale di una cittadina di nome Scranton (in Pennsylvania) di una fittizia azienda che vende carta chiamata Dunder-Mifflin, dal 2005 al 2013. Più dell’80% delle dinamiche si creano a causa di situazioni non-sense alimentate dal manager della filiale, l’ora rinomato Michael Scott (conosciuto nei meme per l’inchino alla ‘Thank you’ e la frase ‘It’s Britney, bitch’ alla guida di una decappottabile, ma non solo).
All’inizio l’unico “pazzo” sembra Michael Scott, ma poi (in modi sempre più sottili) si vede che ognuno dei membri dello staff, e dell’intera azienda fino al CEO, hanno dei modi stravaganti di gestire un ufficio e del personale. Guardando le “imprese” di Michael Scott dal punto di vista di un manager nel 2022, la mia prima impressione è stata che questa non poteva che essere un’opera di totale finzione, e che è impossibile che un manager che passa più del 50% a fare cose che non c’entrano nulla con il lavoro possa ancora mantenerlo e non essere licenziato in tronco.
Eppure, nella finzione di The Office, la filiale di Scranton è la più produttiva di tutte le altre, e non viene mai ridimensionata, sebbene molti segnali fossero dati durante le varie stagioni. Allora mi sono chiesto: questa cosa è realistica? Ovvero, è realistico pensare che se un boss fa tutto fuorché il suo lavoro, i suoi dipendenti sono tra i più produttivi?
Guardando tutti gli episodi, la risposta che mi sono dato è sì, e sarebbe fattibile anche nella vita reale.
Durante la pandemia, e nel post-pandemia, abbiamo imparato a lavorare da soli ognuno da casa propria. Ma in ogni caso, negli anni precedenti, ci siamo progressivamente abituati a lavorare in maniera efficiente. A lavorare e basta, eliminando sempre di più i rapporti interpersonali tra colleghi. Questa dinamica forse va bene per alcuni tipi di persone, ma per altri è deleterio: poter respirare ogni tanto, poter divertirsi a lavorare non solo per la ‘materia’ del lavoro, ma anche per il divertimento che si può creare nell’ambiente di lavoro, è un aspetto da non sottovalutare.
Nell’ufficio in The Office, i dipendenti di Dunder-Mifflin organizzano feste per ogni celebrazione religiosa e non, per ogni compleanno e per ogni celebrazione inventata sul momento. C’è sempre un momento buono per non lavorare, e per conoscersi meglio. Ma forse è proprio perché ci si conosce meglio che si può lavorare meglio insieme. Ci si può sentire più apprezzati e in ambiente più sano.
Durante le ultime 3-4 stagioni (dalla 5 alla 9), l’ufficio subisce una serie di cambiamenti: cambia la proprietà dell’azienda perché l’azienda è sull’orlo del fallimento, poi Michael Scott va via e arriva prima un manager temporaneo (uno dei dipendenti), poi un altro, poi viene fatta una ricerca, poi cambia il CEO, poi uno dei manager della vecchia proprietà riacquista la società, e nel frattempo una serie di dipendenti cambiano ruoli, vanno via, tornano. Tutto anche in poche ore, con una velocità non normale per quei tempi. Eppure oggi può succedere così: in una startup, nel giro di poche ore, può cambiare tutto. La filiale di Scranton è la perfetta rappresentazione di una startup che si muove in maniera caotica.
Immagino che delle dinamiche simili sono successe in Theranos, in WeWork, in Uber e in tutta una serie di altre startup unicorni che hanno guadagnano i titoloni dei giornali di tutto il mondo negli ultimi 10 anni. Dopotutto, il lavoro non è la vita, e non lo deve essere, ma l’ambiente di lavoro può alimentare tanto della vita di ognuno. I dipendenti in The Office si innamorano tra di loro, si odiano, non si parlano e poi si parlano di nuovo. Ma si conoscono tutti molto bene, e sanno come rendersi felici.
Credo che il modo in cui The Office ha raccontato le vite di colleghi in un ambiente di lavoro abbia cambiato per sempre cosa un ufficio debba essere. E questo racconto è ancora più importante oggi, che la nozione di ufficio come luogo di lavoro si sta perdendo, e la parola sta assumendo il significato di “insieme di persone che lavorano ad un obiettivo comune”. Dovremmo lottare per mantenere la nozione di “luogo di lavoro” anche se lavoriamo tutti da remoto, perché la tecnologia ci da tantissimi modi sempre più convenienti simulare l’esperienza di stare insieme fisicamente nello stesso posto.
The Office, nel 2022, è una petizione a mantenere l’ufficio nel suo significato originale, quando questo si sta perdendo. Ora che ci penso, il significato più vicino lo sta assumendo la community, ovvero un insieme di persone che sono accomunate da uno o più interessi. Ne avevo scritto in una ricerca, un paio di anni fa. Per tornare ad essere un luogo di lavoro, l’ufficio remoto deve essere una community, e gestita come tale: invece dell’Office Manager, serve il Community Manager; invece della receptionist, servono uno o più moderatori, e così via. Non un’idea chiara di come questo debba essere fatto, ho lavorato e pensato di più agli input. Ma credo che sia questo su cui lavorerò nei prossimi mesi come manager, ovvero rendere il luogo di lavoro virtuale una community, oltre che un gruppo di persone.