L'ovvietà della ricompensa
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Ieri ho fatto l’esame per cui mi sono preparato per un bel po’ di tempo.
Circa tre settimane. Se faccio i conti guardando al mio calendario, vedo che solo nell’ultima settimana ha occupato circa 15-18 ore del mio tempo. Questa settimana lavorativa, che proprio in queste ore volge al termine, è stata davvero impegnativa, ma l’ho superata. Ho anche lavorato tantissimo.
Tra studio e lavoro, ho accumulato almeno 13 ore al giorno, per 5 giorni, sono circa 65 ore. Elon Musk dice di lavorare 110 ore a settimana, ma io non credo che questo sia possibile. Ne va della sanità mentale.
Io non credo nemmeno che per me abbia senso di lavorare meno di 50 ore a settimana. È che a me piace quello che faccio, e quindi non mi pesa farlo: semmai, mi pesa alcune volte il metodo per arrivare a fare quello che faccio. La parte burocratica. Vorrei stare tutto il tempo a leggere, pensare, scrivere e creare. Ma so che questo non è possibile.
Scrivo queste righe guardando l’Apple Watch che segna le 21:33: tra un’oretta sarò in un pub con i miei amici a bere una birra, a rilassarmi e a godere il momento alla fine della settimana che sancisce la conclusione della mia settimana da tour de force. Pensandoci, non sento il bisogno di vedermi con i miei amici durante periodi di routine lavorativa. Il mio corpo e la mia mente non hanno bisogno di stabilizzarsi.
Quando invece passo una settimana difficile, complessa e piena di attività e impegni, vedo il momento in cui sto con i miei amici, o più spesso con la mia ragazza, come una ricompensa di quello che ho fatto.
Se faccio di meno di quello che avevo pensato di fare, non riesco a godermi quei momenti, sento come se non me li fossi meritati.
Credo che questo genere di dinamica che accade nel mio cervello sia il risultato di un contesto culturale in cui sono nato e cresciuto e che fa parte della mia cultura personale da cui non posso prescindere.
Questo non mi piace, ma d’altronde non posso farci niente.
Vorrei potermi godere i momenti più semplici, felici e tranquilli della mia vita senza pensare al fatto che me li sia meritati o meno.
Quando ero bambino non avevo il concetto del lavoro, ma solo quello del ‘dovere di studiare’: se non fai i compiti, non vai fuori a giocare; se fai il bravo, stasera andiamo mangiare la pizza. Ho sempre visto i momenti belli almeno come ricompensa del lavoro che potevo svolgere.
D’altronde, pensiamoci un attimo: chi punisce i propri figli con delle ricompense? Già solo dire, scrivere questa frase è un paradosso.
Però bisognerebbe farlo. A pensarci bene, oggi molti genitori puniscono i propri figli con delle ricompense, ma queste ricompense non sono chiare. I bambini particolarmente vivaci, oggi, sono ‘accuditi’ dallo schermo di un iPad, da Peppa Pig, da YouTube. Implicitamente, è come se il genitore stesse dicendo se non fai i compiti, ti faccio fare quello che vuoi.
Ora: non voglio puntare il dito contro nessuno. Il contesto in cui i genitori si comportano in questo modo è il frutto di ciò di cui ho parlato sia nell’articolo sul tempo e la devozione al processo e in quello sul coraggio dell’attesa. È un contesto in cui, in poche parole, c’è sempre poco tempo per fare troppe cose. O almeno così sembra.
E così, usare un iPad come morfina educativa per i propri figli sembra la soluzione ovvia. Però c’è ancora tempo per cambiare questo corso. Basta prendere coraggio, e aspettare. Dare ai bambini la concezione dell’attesa. Del prendere tempo, e aspettare la ricompensa. Del guadagnare la ricompensa.
Non oso pensare a un mondo in cui le ricompense per il lavoro svolto non esistano, in cui le ricompense vengono ‘erogate’ indipendentemente che il lavoro sia svolto o meno. Che siano meritate o meno.
Sarebbe un mondo in cui l’uomo non ha più un incentivo a lavorare perché non ha più un motivo per farlo. Tutto gli è dovuto.
Se un uomo ha tutto, perché dovrebbe sforzarsi per avere qualcosa che già ha? Questo mondo sarebbe piatto, monotono, e privo di progresso. Perché nessuno avrebbe più motivo di progredire.
[ Mi è stato fatto notare che ho avuto “una leggerezza nel dire che la ricompensa di Elon Musk sia un pianeta piú in salute, e quella di un’insegnante i soldi per andare in vacanza.” È sembrata “un’edulcorazione dell’imprenditoria capitalista e un togliere la dignitá di vocazione ad uno dei pochi mestieri in cui quella vocazione é rimasta.”
Lungi da me voler dire sminuire il lavoro per uno o per un altro. So benissimo che il ruolo dell’insegnante è di fondamentale importanza e chi lo fa per vocazione rende un valore immenso alla società e all’individuo. Io stesso ricordo particolarmente professori che hanno segnato, in un modo o nell’altro, il mio approccio alla cultura e reso in parte chi sono oggi (grazie Rosalba, Giulia, Carlo, Mariagrazia, fra tutti). La mia voleva essere un’esemplificazione che, effettivamente, si è rivelata troppo semplicistica. (Grazie Stefano per la segnalazione) ]
Io lavoro per condividere il mio sapere e fare divulgazione, per far scattare una scintilla nella testa di chi mi legge o mi ascolta. Ognuno ha la propria ricompensa. Se non ci fosse una ricompensa, che mondo vuoto sarebbe?
Questa puntata forse è un po’ contorta, forse è difficile da capire, forse l’ho pensata male. Ma, come molto di quello che scrivo, questi appunti sono venuti fuori come un fiume in piena mentre scrivevo il mio diario quotidiano, e credo che questo tipo di pensieri siano i migliori, perché sono spontanei e ricchi di associazioni e relazioni continuative, una sopra l’altra.
Vi lascio con una domanda: qual è la vostra ricompensa? Cosa vi fa svegliare la mattina e pensare che se quel giorno non faceste nulla, quella ricompensa non arriverebbe?